STRUMENTO CARICO DI STRAORDINARIA SIMBOLOGIA, SUL FILO DELLA SUA LAMA SI RIFLETTE UNA MITOLOGIA CHE RIMANDA A ORIGINI DIVINE

La spada giapponese ha accompagnato l’Impero del Sol Levante per oltre quindici secoli e ancora oggi è descritta dalle cronache e dalla storia come l’arma più letale. Ma come vedremo è un capolavoro impareggiabile di tecnica e di chimica. In giapponese il termine Katana indica genericamente la spada degli antichi guerrieri giapponesi: i Samurai. Insieme al Wakizashi, la spada a lama corta, e al Tanto, il coltello, costituiva il corredo di armi chiamato Daisho che il samurai poteva portare con sé. Ripercorrendo insieme le epoche storiche, possiamo analizzarne l’evoluzione sia di connotazione che di tecniche impiegate per la realizzazione e come sia così divenuta un’arma invincibile, ma anche uno strumento di pace e ricerca interiore.
Le spade più antiche, antecedenti al 782 d.C., derivavano dall’imitazione di quelle di origine cinese, presentavano una lama pressoché rettilinea e venivano forgiate con il trattamento di tempra differenziale. Erano definite Joko-To, le progenitrici della Katana, sebbene ancora tecnicamente lontane dalle stesse in termini di qualità di realizzazione. Nel successivo periodo Heian, dal 782 al 1180 circa, le cosiddette Tachi sostituiranno progressivamente le Joko-To. Le Tachi presentavano differenze tecniche che indicavano una ricerca di perfezione e di costante miglioria; avevano una lama lunga 75-80 centimetri ed erano dotate di una curvatura, detta sori e un adeguato assottigliamento distale che le rendeva più maneggevoli e leggere. Venivano portate custodite nel fodero, il Saya, con il fendente rivolto verso il basso. Le lame non potevano ancora definirsi vere e proprie Katane, ma possedevano alcune caratteristiche tipiche, come la comparsa della curvatura della lama e il perfezionamento delle tecniche metallurgiche di realizzazione. Queste prodigiose armi da taglio erano studiate per essere utilizzate da uomini a cavallo e per raggiugere il massimo obiettivo con il minimo impiego di forze.
LE CINQUE SCUOLE DELLA TRADIZIONE
In seguito e durante il periodo Kamakura, dal 1181 al 1330, l’età d’oro della spada giapponese, i samurai presero il potere e lo mantennero fino alla caduta del feudalesimo. Per rendere più competitive le katane, furono incentivati e radunati i migliori forgiatori e vennero sviluppate metodiche che prevedevano l’utilizzo di diversi tipi di acciaio uniti fra loro per conferire differenti proprietà alle varie parti della lama. Si crearono diversi modelli di punta tagliente, i Kissaki, e modalità di tempratura allo scopo di garantire la maggiore resistenza e la massima elasticità, raggiungendo un livello qualitativo eccellente. Fu in questo momento storico che nacquero le cinque scuole della tradizione della forgiatura della Katana: Yamashiro, Yamato, Bizen, Soshu, Mino. Nel periodo Muromachi, dal 1330 al 1570, l’Uchigatana sostituì la Tachi: aveva una lama di 60-75 centimetri e una curvatura e un assottigliamento distale minori rispetto al modello precedente. Si portavano con la lama rivolta verso l’alto, per sguainarle più facilmente ed essere usate soprattutto dalla fanteria. Dal 1571 al 1647 nel periodo Momoyama, epoca di grandi combattenti passati all’onore delle cronache, iniziava la produzione delle Katane Shinto. Il periodo Edo, dal 1648 al 1852, vide la presa del potere dello Shogunato di Tokugawa (data l’introduzione delle armi da fuoco di importazione occidentale). Non più impiegate in guerra, le Katane ora servivano per i duelli e più come simbolo di appartenenza alla casta guerriera. Per facilitarne l’estrazione venne modificata la curvatura della lama ed emersero caratteristiche tipiche, come motivi floreali, i kissaki lunghissimi, più vezzosità che tecnicismi. Così, in età moderna, terminavano il medioevo e l’epopea dei samurai. L’Imperatore vietò di portare la Katana come parte dell’abbigliamento, ormai vista come un retaggio del passato e in contrasto con la modernità dell’Occidente.
DAL CIELO ALLA TERRA

La bellezza della Katana come opera d’arte e di guerra si accompagna a un processo di produzione che risponde a precisi requisiti e criteri scientifici. La lama viene realizzata con una combinazione di tipi di acciaio alternativamente morbidi e duri mescolati al carbonio (che può raggiungere anche l’1% del totale per renderla flessibile), ma anche rame, silicio e tungsteno. Il cuore d’acciaio prende il nome di tamahagane, ovvero “acciaio gioiello” ed era scaldato ad alte temperature e modellato con il martello, piegandolo e ripiegandolo fino a 15 o 20 volte. Si passava quindi alla definizione della forma della katana e alla lavorazione sul filo attraverso passaggi di riscaldamento e raffreddamento rapido in acqua. Le katane, soprattutto al giorno d’oggi, sono ineguagliabili opere d’arte, realizzate a seconda della scuola di appartenenza e del forgiatore, la cui figura racchiudeva le conoscenze e le competenze dello scienziato, dell’alchimista, dell’artista, che la creava in base a norme rituali. Il Maestro indossava abiti sacerdotali, sceglieva il giorno più adatto e curava la purificazione dello spirito e del corpo, proteggeva la fucina dagli spiriti maligni che potessero compromettere l’opera e spesso era coadiuvato da un Kami, una divinità.
La tradizione e la mitologia giapponese hanno contribuito a eleggere la Katana come uno strumento divino. Vuole la leggenda che fosse stata la dea Amaterasu, personificazione del Sole, a concedere in dono ai suoi seguaci una collana, uno specchio e una Katana, ancora oggi gli emblemi del Giappone. Un’altra leggenda narrata nel Kojiki, vede il dio Haya Susanoo, figlio di Izanagi, uccidere un enorme demone, un drago a otto teste nella cui coda si trovava la spada Tsumugari, la ben affilata. Il dio regalò la spada alla sorella, la dea Amaterasu, che la diede al nipote Ninigi, quando questi discese dal cielo per governare il Giappone.
LA DOPPIA TEMPRA DI OKAZAKI

La spada da sempre è considerata come un elemento permeato da un’essenza spirituale di pura derivazione Shintoista. Essa avrebbe protetto i samurai in battaglia e custodito la loro anima dopo la morte e i suoi successivi proprietari l’avrebbero comunque influenzata. Nelle mani di un uomo malvagio, la katana diveniva portatrice di dolore e sventura. Il più famoso forgiatore fra i maestri spadai è il leggendario Masamune Okazaki, che operò nel periodo compreso tra il 1288 e il 1328 nella provincia di Sagami. Si deve a lui la tecnica del processo a doppia tempra con cui riuscì ad accrescere la durezza dell’acciaio e la fama delle sue spade. Oggi restano pochi esemplari che riportano la sua firma. La Honjo Masamune era ritenuta una delle migliori spade mai costruite ed ha rappresentato, nell’era Tokugawa, il potere assoluto dello Shogun e per questo tramandata di volta in volta al successivo regnante. Come ogni tradizione che si rispetti però ci fu una controparte negativa, come nel caso di Sengu Muramasa, un fabbro famoso per lo straordinario filo e la capacità di taglio delle sue lame. Esse furono maledette dal fondatore dello Shogunato Ieyasu Tokugawa, quando si ferì con una lama Muramasa; da allora, chi le avesse brandite sarebbe stato affetto da un’insaziabile sete di sangue, e nessun samurai avrebbe potuto possederne una.
LA VIA DELL’ARMONIA

L’uso della katana in battaglia ha dato vita alle prime forme di arti marziali, come il Kenjutsu e lo Iaijutsu. Inizialmente intese come esercizio per migliorare le tecniche di combattimento, esse evolvono nel tempo e abbracciano gli aspetti tipici della pratica. La katana diviene uno strumento di ricerca del perfezionamento dell’individuo in ogni suo aspetto, attraverso la ripetizione incessante del gesto tecnico. L’obiettivo è il miglioramento di esecuzione, nonché il perfezionamento interiore del praticante. La katana diviene Dō: una Via, un percorso, una filosofia. Tale concetto è la base dell’arte marziale conosciuta con il nome Ai Jutsu: Via dell’Armonia.Codificata e presentata nel 1973 dal Sensei Maharishi Sathyananda, Maestro tutt’ora vivente, si pratica utilizzando la katana e indossando il tradizionale abito, il Keikoji. Quest’arte consiste nello studio e nelle applicazioni in forma individuale dei Kata, insieme di azioni predefinite che, raggruppate, esprimono la simulazione di un combattimento contro l’avversario più temuto: noi stessi. L’Ai Jutsu è la summa di più tecniche e metodi di combattimento presenti anche in altre arti, quali il Judo, il Karate, lo Iaido e l’Aikido. Il Sensei ha codificato scientificamente ben 64 Kata, alcuni di combattimento e raccolti nel Ken-Jutsu, altri di meditazione come quelli facenti parte del Bushidō e Buten Ryu, altri ancora, estremamente tecnici come gli Iaido e i Tenshinshoden. I kata sono volti alla ricerca dell’Armonia: con il tempo, essa prende forma in ogni aspetto, ogni gesto, ogni movimento, sino alla perfezione. Il praticante acquisisce consapevolezza ed equilibrio interiore e sarà in grado di far fronte a qualunque problematica si presentasse sul percorso della sua vita. Ad ogni taglio, la katana consente il Kiri, cioè il tagliare le contaminazioni, le paure e i limiti insiti nell’essere umano e, con le aperture dette Hiraku, di schiudere nuove Vie verso la crescita spirituale.
L’Ai Jutsu è una forma di meditazione vivente che trova espressione attraverso l’armonia del corpo. La katana diventa strumento di perfezione: la sua lama disegna nello spazio linee pure, che racchiudono il codice d’accesso alla meditazione in movimento.

MICHELA BRANDOLINII Laurea Magistrale in Economia e Commercio e diploma ACSI - Ente di Promozione Sportiva riconosciuto CONI - Istruttore Yoga, Fitness e Wellness; Personal Trainer. Si avvicina alla pratica delle discipline dello Yoga e del Kriya Yoga come supporto all’attività agonistica nel 1998, dopo aver conseguito i diplomi necessari all’avvio del percorso d’insegnamento delle discipline del Metodo, sotto la guida del Maestro Maharishi Sathyananda. Inizia ad insegnare nel 2011 al Dojo Maharishi Sathyananda e da circa cinque anni pratica Ai Jutsu.
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